Fino a che punto pensiamo che la tecnologia possa introdursi in cantina per migliorare o modificare il processo di trasformazione del mosto in vino? E’ ammissibile la chimica? Mi sembra opinione diffusa di no, se si eccettua l’inevitabile e sperabilmente oculato impiego di anidride solforosa. Perché riteniamo più accettabile la fisica, attraverso il controllo della temperatura di fermentazione, che determina entro pochi gradi di differenza profili aromatici completamente diversi dei vini prodotti, soprattutto se in abbinamento con i lieviti giusti? Osmosi inversa e concentratori sono per noi farina del diavolo o un segno di progresso?
Bene, potrebbe essere il momento di incominciare a familiarizzare anche con l’elettrochimica, grazie ad un procedimento messo a punto da un gruppo tecnici esperti di titanio, che hanno realizzato e brevettato un fermentino in titanio collegato attraverso un generatore di corrente a un anodo sempre in titanio posto entro
il vino. Ecco qui il link diretto al patent come pubblicato sul motore di ricerca dei brevetti europeo. Semplificando, anche se non sono sicuro di aver capito tutto, si tratta di sfruttare un piccolo flusso di corrente elettrica che passa dentro il vino per far avvenire dall’interno e in modo controllato le reazioni di ossidazione tipiche dell’affinamento in botte piccola. Il metodo è quindi una alternativa più efficace (a detta degli autori) alla micro-ossigenazione.
Posso confessare di aver conosciuto un bel po’ di anni fa gli ideatori del brevetto, e trattandosi di tecnici di valore, c’è da scommettere che il sistema funzioni davvero. In più è farina del sacco italiano, il che non guasta.
Però, non so perché, se il tutto si fosse limtato ad una bella botte in un materiale ipertecnologico ed indistruttibile come il titanio, avrei solo applaudito; invece quel generatore di corrente, quella manopola che ci consentirebbe di regolare l’entità dell’evoluzione del vino come il volume dello stereo, intimamente mi disturba. Vedremo, anzi….assaggeremo!
Luk